Stanco di seguire il gregge del “Less is more”, di chi scrive che Internet ti rende stupido o dell’ennesima slide con su scritto che un pesciolino rosso ha una soglia di attenzione superiore alla tua? Bene, siamo in due e questo articolo ti serve per capire cos’è un long form content e perché prenderlo in considerazione per la tua strategia di marketing.
Se vuoi crescere in questo settore, devi sfidare ad uno ad uno tutti i dogmi che lo ossessionano. Dogmi che tendono a tarpare le ali al tuo pensiero strategico e creativo, trasformando il tuo lavoro in un processo monotono a volte asfissiante. Se non fai questo esercizio costante di dubbio metodico, ti precludi la possibilità di aprire la mente a nuovi orizzonti.
Il dubbio, la messa in discussione di un dogma, è una caratteristica insita nell’uomo perché necessaria a farlo progredire. A proposito di dogma, vuoi un esempio concreto e ben radicato nel mondo del marketing e della comunicazione digitale?
“SHORTER IS BETTER!”.
Sono anni che questo dogma pende come la spada di Damocle sul capo di chi lavora nella nostra amata industry digitale. È arrivato il momento di tagliare quel crine di cavallo che sorregge la spada e tornare ad essere liberi di pensare di poter seguire anche una strada diversa.
Qualora non avessi tempo oppure la pazienza di seguirmi tutto d’un fiato dall’inizio alla fine, ti semplifico la vita elencandoti tutti i temi trattati all’interno di questo articolo. Temi che potrai leggere, ignorare o approfondire a tuo piacimento:
- La nostra capacità di attenzione è di appena 8 secondi?
- Pesce rosso vs Uomo: lo studio di Microsoft che ha segnato un’epoca.
- Forse siamo meno stupidi di quello che molti guru vogliono farci credere.
- Sì, è il momento di trollare gli integralisti dello “Shorter is better”.
- La narrazione del tl;dr applicata ai contenuti dei brand è OLD.
- L’importanza del long-form da Omero al binge watching su Netflix.
- Long-form storytelling: ecco perché non se n’è mai andato.
- Dove le parole finiscono iniziano le case study!
- Per i veri amanti del voglio tutto e subito: ecco le conclusioni.
La nostra capacità di attenzione è di appena 8 secondi?
L’8 aprile scorso incrociai un post dedicato a Emil Cioran che ne celebrava la nascita con un aforisma. L’aforisma in questione, “Non sono mai a mio agio nell’immediato”, mi rapì letteralmente. Il perché era semplice: rifiutando il concetto di immediatezza, Cioran sembrava che stesse declassando il presente a mero fastidio. Ed era proprio quello che stavo provando mentre scorrevo velocemente il feed dei miei social in pieno lockdown.
Quella frase tanto breve quanto profonda mi portò a riflettere sul perché di quel mio fastidio e a pensare di scrivere questo articolo sul long-form covato, forse, per troppo tempo.
Viviamo in un’epoca dove abbiamo accesso costante e immediato a tutto. Non dobbiamo quasi mai aspettare una risposta da parte di qualcuno a una domanda o leggere articoli interi su qualsiasi cosa per avere un’idea su ciò che ci incuriosisce. Siamo abituati ad un accesso istantaneo e continuo alle informazioni che, se non filtrate, ci possono disorientare.
Non è un caso se, da un po’ di anni a questa parte, la più grande abilità che ci dicono di coltivare è di saper catalogare il più velocemente possibile la mole sterminata d’informazioni che ci travolgono. E cosa significa “catalogare”? Forse raccogliere secondo un certo ordine, o in base a determinati criteri, qualcosa a favore di ricerche future?
Pesce rosso vs Uomo: lo studio di Microsoft che ha segnato un’epoca.
Sembra che per molti la nostra mente sia considerata ostile alla quiete dell’introspezione, predisposta a procrastinare o sopprimere qualsiasi impulso alla conoscenza approfondita di un argomento. Ma è così che stanno le cose? Siamo davvero dinanzi al dissolversi del pensiero lineare e meditativo o ad una sua mutazione irreversibile?
Se così fosse, dovremmo dare per assodato che il circo mediatico in cui siamo immersi continuerà a popolarsi sempre di più di mangiatori seriali di surrogati di pensiero. Quelli che vogliono darsi un tono di norma li etichettano come fruitori di snackable content con la capacità di attenzione inferiore a quella di un pesce rosso. Questi qui sono gli stessi che vi consiglierebbero di consultare uno studio di Microsoft (Canada) secondo cui il tempo di concentrazione di un uomo (in media di 12 secondi) dal 2000 al 2015, è sceso a 8 secondi.
Insomma, in quindici anni pare che abbiamo perso per strada, come se fossero noccioline, quattro secondi. Il che ci porterebbe a fare un passo indietro con tanto di cappello rispetto al nostro amato e diligente pesce rosso.
Lo stesso report, datato di 5 anni e che non sembra tenere in considerazione che lo span d’attenzione di un individuo si leghi al task specifico che svolge, sostiene che facciamo fatica a concentrarci per un motivo preciso: le informazioni che riceviamo sono troppe e il nostro cervello non ce la fa a valutarle tutte rapidamente.
Lo stesso studio, condotto su un campione di 2.000 canadesi, indica come causa di questo fenomeno il nostro stile di vita digitale. L’aumento vertiginoso dell’uso della tecnologia dovrebbe essere la causa principale del progressivo deterioramento della nostra soglia di attenzione.
Forse siamo meno stupidi di quello che molti guru vogliono farci credere.
Ora, visto che “Io dubito di tutto e mi trovo sempre nel dubbio” (cit. Tolstoj, segnatela potrebbe tornarti utile), mi viene da pormi una domanda: se le cose stessero veramente così, com’è che mi trovo dinanzi all’ascesa della fruizione di podcast, al boom di piattaforme di live streaming (una su tutte Twitch), alla rinascita di Medium, a un utilizzo sempre più complesso da parte di persone comuni, brand e influencer, di dirette su Facebook e Instagram o della stessa IGTV?
Volete un esempio “for dummies”? Le dirette Instagram di Bobo Vieri , dove il bomber dei bomber parla per ore senza filtri, saltarellando tra aneddoti, imitazioni e figuracce. E, attenzione, lo fa proprio come facciamo tutti noi tra amici con l’unica e non trascurabile differenza che lui lo fa spesso anche davanti a più di 60mila persone.
Senza dubbio lo spettacolo più divertente mai trasmesso (e da me seguito) in diretta live su Instagram durante il lockdown. Ovviamente sfido tutti i veri amanti del calcio e del bomberismo a sconfessarmi. Cos’è successo? Abbiamo per caso cambiato il nostro stile di vita digitale? Siamo forse meno bombardati da news, post, mail e challenge su TikTok di ogni genere? Si è per caso ridotto l’uso della tecnologia negli ultimi tempi?
Non credo proprio. E non venite a dirmi che ognuno dei trend poco fa menzionati abbia proliferato grazie all’isolamento sociale che ci ha tenuti segregati in casa per alcuni mesi. Meglio non peccare di superficialità come molti dei nostri politici su questioni ahimè anche più serie. Se volete i nomi, contattatemi pure in privato. Tornando a noi, i trend erano evidenti e da tempo.
La realtà è che dall’altra parte del recinto (dell’agenzia in cui lavoro, ma come di ogni azienda) troviamo delle P E R S O N E. Non dei pesci rossi! E le persone non sono stupide come hanno voluto farci credere molti guru del marketing e della comunicazione negli ultimi anni.
Sì, è il momento di trollare gli integralisti dello “Shorter is better”.
Le persone leggono, guardano, ascoltano, e lo fanno per tutto il tempo che vogliono, solo se interessate. Ripeto, per i più duri di comprendonio, solo se interessate! Cosa c’è alla base di questa mia affermazione? Il libero arbitrio: la libertà di ciascun individuo di scegliere lo scopo e il tempo del suo agire, pensare, ascoltare e condividere qualcosa. Insomma, quello che ti ha fatto arrivare a leggere questo articolo “peso” fin qui.
Appare evidente, sulla base di quanto scritto fin qui, che la mia volontà sia di sfatare uno dei tanti dogmi del nostro settore: quello che per accaparrarsi la risorsa più preziosa e limitata di questo mondo digitale, e cioè l’attenzione delle persone, sia essenziale creare dei contenuti sempre più brevi e impattanti. Giusto per usare due aggettivi poco inflazionati.
Chi lavora in questo settore, dall’Head of Strategy all’Head of Performance, dal Project Manager al Community Manager, dall’Art Director al Copywriter, deve capire che per le persone (tutte) c’è un tempo per la raccolta e la catalogazione delle informazioni in tempi rapidi e un tempo molto più lungo per l’approfondimento di quelle informazioni giudicate rilevanti per affinità, interesse o anche solo per pura curiosità.
Se affermo questo, è perché credo che sia necessario distinguere una finta minaccia da una concreta. La finta minaccia è di trovarsi davanti sempre più cacciatori bulimici di “snackable content” con lo span di attenzione inferiore a quello di un pesce rosso.
La minaccia concreta è di perdere la consapevolezza del fatto che chi sta dall’altra parte del nostro famoso recinto (e tra questi mi ci metto anch’io) possa avere la capacità di trovare il giusto equilibrio tra due stati mentali apparentemente agli antipodi: quello dinamico non-lineare e quello contemplativo e lineare.
Su questo argomento vi do un consiglio di lettura per l’estate: Internet ci rende stupidi? di Nicholas G. Carr. Sei anni fa, in un altro mio articolo su Medium, per rappresentare questo scenario coniai questa metafora:
Una volta eravamo come dei palombari immersi in un mare di parole e di informazioni, ora sfrecciamo a grande velocità sulla superficie di quello stesso mare come dei surfisti
Attenzione, ciò non significa che abbiamo perso la capacità di tuffarci e di scoprire cosa c’è sul fondo di questo mare. Per far sì che questo accada deve però esserci qualcosa che catturi il nostro interesse e che ci spinga ad andare a fondo. E a dettare le condizione per andare a fondo è la nostra attenzione ormai sempre più selettiva. È come se avessimo affinato nel corso del tempo l’abilità di concentrarci sugli stimoli rilevanti, ignorando quelli irrilevanti a cui forse dedichiamo anche meno dei famosi 8 secondi di attenzione attestati dallo studio di Microsoft.
Tutto ciò ha delle conseguenze per i brand e per tutti coloro che operano sul web e attraverso il web, poiché mette in discussione l’approccio che è stato utilizzato fino a questo momento. E, perché no, trolla la spavalderia degli integralisti dello “Shorter is better!”. Una fazione che dati alla mano ha parecchie frecce al suo arco. Tuttavia i dati vanno sempre interpretati, contestualizzati e a volte messi in discussione.
Se non lo facessimo, saremmo dei robot. I robot fanno lavori ripetitivi in un contesto preciso, ci sarà pure un’evoluzione nella robotica, ma i computer meccanici e tradizionali non avranno mai la capacità di porsi delle domande, di mettere in discussione il proprio operato o dei semplici numeri. “Non mi fido molto delle statistiche, perché un uomo con la testa nel forno acceso e i piedi nel congelatore statisticamente ha una temperatura media”, scriveva Charles Bukowski e forse non aveva tutti i torti.
La narrazione del tl;dr applicata ai contenuti dei brand è OLD.
Qui non si tratta di cancellare quanto fatto fino a questo momento, ma di iniziare a metterlo in discussione per tentare di superare un dogma: la narrazione del tl;dr applicata ai contenuti dei brand come unico strumento per raggiungere e catturare l’attenzione delle persone.
Per chi non lo sapesse, la sigla tl;dr sta per “Too long, didn’t read” e non è nuova: nel 2013 è stata inserita nell’edizione online del celebre Oxford Dictionary, ma l’origine è addirittura precedente. I primi utilizzi della sigla tl;dr risalgono addirittura al 2003. Nei forum il tl;dr è nato come risposta a chi scriveva troppo, all’eccessiva verbosità, alle pretese di attenzione su testi che probabilmente non la meritavano.
“Troppo lungo, non l’ho letto” era l’etichetta da appiccicare ai quei post da sconsigliare agli altri. Ma il nostro mondo non è un forum e non si decide di leggere qualcosa, basandosi unicamente sul fatto che un testo sia “troppo lungo” o, per assurdo, “troppo corto”. Il vero fattore discriminate è la qualità di quello che c’è scritto in quel testo, lungo o corto che sia (vedi l’aforisma di Cioran citato all’inizio di questo mio articolo).
A scanso di equivoci, non intendo screditare l’utilità dei contenuti brevi. Sostengo però che l’utilizzo di storie dalla narrazione più estesa, strutturata e pregna di significato, non è da condannare a priori. Anzi, se ci sono le giuste condizioni per farlo, il long-form dev’essere un’opzione importante da tenere in considerazione. Vogliamo che i brand si introducano di soppiatto nei feed delle persone cercando di conquistare quelle che definirei “briciole” di attenzione oppure vogliamo aiutarli a fare uno step in avanti, qualora ci fosse una volontà e consapevolezza reale da parte loro?
Come? Magari creando i presupposti per stimolare le persone ad un coinvolgimento più profondo. E la conditio sine qua non per farlo sono le storie che andiamo a pensare e la qualità della narrativa che esse si portano dietro. È da quest’ultima che dipende la potenza persuasiva di un contenuto e di conseguenza l’interesse, il coinvolgimento e il tempo di attenzione delle persone. Non da altri fattori.
L’importanza del long-form da Omero al binge watching su Netflix.
Le storie hanno sempre avuto un’importanza cruciale nell’esistenza dell’uomo, lo hanno aiutato a combattere la banalità della quotidianità, a trovare un rifugio, un nuovo posto nel mondo e a volte addirittura a cambiarlo questo mondo.
Le storie, quelle che persuadono mischiando alla perfezione èthos e pàthos, sono una necessità umana innata. Poco importa poi se queste storie siano vere o immaginarie: la cosa che conta è che continuino ad accompagnarci nella nostra vita, digitale e non. Le storie, se orchestrate bene, sono la linfa vitale, perché la mente umana è fatta per funzionare con esse. Non è un caso se tutte le volte che leggiamo una storia, guardiamo una serie su Netflix o ascoltiamo un podcast, nel nostro cervello s’innesca un meccanismo di gratificazione istantanea.
Ogni storia segue una struttura che descrive relazioni fra cause ed effetti in determinati eventi, che hanno luogo in un arco temporale preciso e che portano a delle conseguenze. A farne le spese sono tutti quei personaggi, protagonisti o meno della storia, che impariamo ad amare o odiare in base a quanto riusciamo ad immedesimarci in essi.
Tutto questo, oltre ad essere pane per la nostra mente, è garanzia indiscussa di rilevanza e attenzione. Se ci focalizzassimo di più sul creare delle storie, quelle vere, iniziando a mettere in discussione il dogma che un brand debba comunicare per forza tramite messaggi lampo o video “corti, verticali, possibilmente disruptive e con ben visibile il prodotto e il logo della marca”, forse potremmo fare non uno, ma due o tre passi in avanti.
Long-form storytelling: ecco perché non se n’è mai andato.
È arrivato il momento di essere più sofisticati e meno scontati, di abbattere alcuni dogmi di settore che ci frenano nel prendere in considerazione qualcosa di diverso da quello che molti dei nostri clienti si aspettano di ricevere.
Per fare questo bisogna sempre tenere in considerazione la tipologia di cliente, il contesto storico in cui ci muoviamo, la sensibilità del referente, gli obiettivi di progetto, il budget e la sostenibilità della sfida “long-form” per il team. Tuttavia ognuno dei fattori elencati assume rilevanza zero, se prima non si comprende il perché sia necessario cambiare l’approccio standard e alternare con sapienza “instant storytelling” e “long-form storytelling”.
Siamo esseri narrativi. Nasciamo per ascoltare e raccontare storie e non considerarne l’importanza è un atto di superficialità estrema per chi come me lavora in settori come quelli della Comunicazione e del Marketing. Aprire la mente alla comprensione del perché si debba considerare il long-form non come un’alternativa, ma come un’opzione in più, è solo il primo step. Il secondo consiste nel porsi una domanda: ho intorno a me un team composto da figure professionali (e soprattutto menti!) in grado di “orchestrare” una struttura narrativa importante? Se la risposta è no, meglio desistere subito.
Se invece la risposta è sì, tutto il team in questione (che può tenere insieme competenze interne e in alcuni casi esterne all’agenzia) dallo Strategist al Project Manager, dal Copywriter all’Art Director, dal Fotografo all’Illustratore, dal Podcaster al Videomaker, deve avere la consapevolezza di dover lavorare di qualità. Senza tale consapevolezza, senza la qualità, qualsiasi budget per il nostro “marketing dei contenuti” e qualsiasi agenzia che fa di esso il suo core business potrà affondare le sue radici in un terreno stabile e soprattutto fertile.
Il long-form non è tornato, è semplicemente cambiato ed è una cosa seria, perché il “raccontare” una storia (legein) nel senso più autentico e originario della tradizione greca implica suscitare un’intima risonanza. Cos’erano d’altronde i miti dell’Antica Grecia se non storie che scuotevano dal torpore, rapendo letteralmente l’attenzione di chi le ascoltava e coinvolgendo personalmente ed emotivamente anche lo stesso narratore?
Ogni storia, se ben costruita e raccontata, è contemporaneamente un cibo per la nostra mente e un atto di responsabilità che richiede preparazione e tempo. Un tempo per la scrittura e un tempo per l’ascolto, la visione o la lettura.
Dove le parole finiscono iniziano le Case Study!
È giunta l’ora di passare dalle parole ai fatti. Ti risparmio una carrellata di case study internazionali long-form perché a fare questo sono bravi tutti. La mia intenzione è di presentarti due case study made in Social Factor e il motivo è semplice: danno sostanza e credibilità a quanto scritto fin qui. Occhio, non è una marchetta! I progetti in questione sono stati ideati e realizzati per due canali televisivi di proprietà del broadcaster internazionale A+E Networks: History e Crime+Investigation.
L’ITALIA DELLE NAVI
Gennaio 2020, History ha in programma di trasmettere in esclusiva su Sky una nuova produzione, L’Italia delle navi: una docu-serie che in cinque episodi ricostruisce l’impatto avuto dalla navigazione sull’evoluzione della società italiana. 140 anni di storia navale italiana che offrono uno spaccato dell’evoluzione sociale, economica e politica del nostro Paese da un punto di vista privilegiato. Un vero viaggio nel tempo lungo la Penisola e i suoi 80mila chilometri di coste.
Quale migliore occasione per prendere in considerazione il long-form? Gli elementi ci sono tutti: qualità del prodotto, cliente lungimirante, voglia condivisa tra agenzia e azienda di sperimentare una dinamica di comunicazione e promozione lontana dal mindset del “Voglio qualcosa di figo, possibilmente disruptive” o del “Puntiamo tutto su video corti e verticali!”. E poi c’è il mare: inesauribile fonte d’ispirazione e palcoscenico naturale di capolavori senza tempo, di gesta epiche, di vita vissuta, dove amore, avventura, guerra e coraggio, sono soliti intrecciarsi in un groviglio di storie da raccontare.
La campagna di comunicazione per L’Italia delle Navi si articola in tre fasi: teaser, lancio e mantenimento. E fin qui, nulla di nuovo. La novità però c’è ed è l’ambizione alla base del nostro progetto: attirare, incuriosire e invitare all’approfondimento il pubblico di History (e più in generale chiunque sia potenzialmente interessato alle tematiche tratte dalle docu-serie), attraverso una struttura narrativa basata su contenuti long-form.
I canali social di History hanno così ospitato contenuti indirizzati a creare in primis hype sulla docu-serie in arrivo e poi ad ottenere non tanto le “briciole” di attenzione del pubblico, ma un suo coinvolgimento più profondo, lontano da una fruizione mordi e fuggi.
Tutto questo è stato possibile utilizzando tatticamente e in modo sinergico tutti i presidi social di History e soprattutto lanciando un canale Medium dedicato verticalmente a L’Italia delle Navi. Un touchpoint digitale (come direbbero quelli fighi) più che mai appropriato, dove poter accogliere una struttura narrativa complessa (fatta di testi, immagini e video immersivi) basata interamente sul concetto di long-form.
Il valore aggiunto di Medium sta infatti nell’essere un ibrido (ben riuscito) di una piattaforma di blogging e di un social network. Medium è uno stupendo caos aritmico generato dalla combinazione di contenuti long-form di qualità firmati da editor informali, autori pagati, PR, startup, hacks e ora sempre più da Magazine di nuova generazione. In altre parole, Medium era nel lontano 2014 – come lo è oggi – un luogo di discussione aperto a chi si sente un curator e a chi crede nella potenza e nella forza attrattiva del long-form (brand come History compresi).
È per questa ragione che abbiamo deciso di lanciare un profilo Medium dedicato a L’Italia delle Navi dove creare, diffondere e raccogliere, contenuti long-form attinenti alle puntate come ad altri aspetti ad esse collegati, purché d’interesse e rilevanza per un pubblico in target.
La struttura narrativa alla base del profilo Medium de L’Italia delle Navi nasce dall’individuazione di 5 macro-categorie di argomenti destinate ad ospitare ciascuna un articolo di approfondimento su temi e fatti coerenti e, in alcuni casi, collaterali a quelli trattati nelle singole puntate.
Nello specifico:
- Cultura: Il linguaggio del mare
- Tecnologia: Storia del più antico cantiere navale italiano… e dei suoi giganti del mare
- Costume e società: Dall’emigrazione al turismo: storia di una nazione in movimento
- Sostenibilità: La salvaguardia del mare: un impegno di tutti
- Guerra: La guerra e il mare
All’interno del nostro, già complesso, universo narrativo abbiamo deciso di introdurre anche tre foto-video gallery a tema realizzati in partnership con la Marina Militare italiana. Di queste tre, una ha dato la possibilità a tutti i lettori di iniziare una navigazione a 360° all’interno del sommergibile Pietro Venuti (S 528).
DELITTI: FAMIGLIE CRIMINALI
Febbraio 2020, Crime+Investigation sta per trasmettere in esclusiva su Sky una nuova produzione italiana: Delitti: famiglie criminali. È una miniserie di cinque episodi che mette sotto la lente di ingrandimento storie di crimini dove i “cattivi” sono legati da vincoli di famiglia. La miniserie si divincola tra i materiali degli atti delle indagini e le interviste ai protagonisti, diretti e indiretti, delle vicende. È questo l’asse portante di uno schema narrativo ispirato all’essenzialità del genere letterario e cinematografico True Crime.
Come per L’Italia delle Navi, anche qui ci troviamo dinanzi ad una materia fertile: a un coacervo di storie e protagonisti che si aggrovigliano e che sembrano fatti a posta per essere promossi e valorizzati tramite long-form storytelling. La combo Delitti: famiglie criminali e Crime+Investigation, un canale televisivo con una capacità e uno stile del tutto distintivo nel raccontare storie, risulta pertanto subito prodroma di un progetto basato su un’impalcatura narrativa profonda e sfidante.
Come scritto prima, però, c’è long-form e long-form. E allora una domanda sorge spontanea: ammesso che di materiale per creare una narrazione di livello ce n’è, quale format long-form utilizzare per raggiungere gli obiettivi indicati nel brief: incuriosire ed essere rilevanti esplodendo il potenziale narrativo di ognuna delle cinque storie di crimine della miniserie?
Abbiamo così scelto di cavalcare il trend dei podcast e di generare interesse intorno a Delitti: famiglie criminali, instaurando una nuova dinamica d’interazione tra il pubblico del canale e le storie di cui esso si fa portavoce da sempre.
Se l’utilizzo di podcast all’interno di una strategia di content marketing è ormai sdoganato (e in molti settori), non lo è nel mondo dell’intrattenimento televisivo. Qui ci sono pochi esempi e tutti accomunati dalla logica del “Ti ripropongo quanto puoi vedere in tv sul mio canale, ma in formato podcast”. Nel 99,9% dei casi in questo settore podcast è sinonimo di replica (ma in formato audio). Ok, ma così sono bravi tutti a fare i podcast!
La strada che abbiamo deciso di seguire è un’altra: creare cinque audio-storie ex novo, chiamiamole pure postcast, pensate per una fruizione esclusiva sui canali social di Crime+Investigation.
L’obiettivo alla base di questi contenuti audio long-form non è spoilerare, riassumere o replicare quanto gli appassionati del canale possono vedere tranquillamente seguendo la miniserie, ma accompagnarli ad intraprendere un viaggio all’interno di ogni singola storia. E ci siamo riusciti dispensando micro informazioni comprovate sui fatti e alternando a queste dettagli su vittime e carnefici, luoghi e indagini, oscuri ai più e finalizzati a mantenere alta l’attenzione degli ascoltatori per tutta la durata dei postcast.
Postcast che hanno ricoperto il ruolo di protagonisti assoluti nella campagna di lancio integrata di Delitti: famiglie criminali. Essi sono stati diffusi e promossi online attraverso i canali social di Crime Investigastion e offline mediante una campagna di affissioni multisoggetto concentrata su Roma e Milano con tanto di QR code dinamico in grado di creare un ponte immediato con la serie e, soprattutto, con i nostri postcast pronti per la fruizione da mobile.
C’è da aggiungere, per completezza, che le stesse affissioni con QR code dinamico ci hanno permesso di dare visibilità nella fase immediatamente precedente al lancio dei postcast, dedicati alle singole puntate, al video promo della miniserie.
Conclusioni
A chi sostiene con convinzione che il long-form sia tornato di punto in bianco dico che è in fallo. Il long-form non se n’è mai andato: l’abbiamo mandato al rogo come se fosse un eretico, tolto dalle fiamme all’ultimo momento e spedito in esilio (apparente).
Diciamocela tutta: il long-form è stato percepito con astio e disprezzo per anni come se fosse un clandestino o un appestato. Nel mentre, però, questo reietto si stava trasformando sotto i nostri occhi e senza che ce ne accorgessimo.
Perché long-form non è (solo) questo articolo, un post di Paolo Iabichino o di Matteo Bianx, la Bibbia o un saggio di Montesquieu, ma ogni contenuto, in qualunque formato, concepito per catturare l’attenzione delle persone per un tempo superiore a quei pochi secondi in cui qualsiasi inserzionista consiglierebbe di giocarsi il tutto per tutto.
Attenzione, Facebook stesso opterebbe per il medesimo consiglio e parlo dell’azienda e canale pubblicitario, non tanto il social network con 2.5 miliardi di utenti attivi ogni mese.
Definire cosa sia un contenuto long-form oggi non è solo una questione di tempo di coinvolgimento o di forma, ma anche di finalità intrinseca.
Long-form è sinonimo di approfondimento, volontà di sviscerare, setacciare, analizzare e guardare da diversi punti di vista un argomento, un brand o anche semplicemente un prodotto.
E non c’è scritto da nessuna parte che long-form sia un modo di comunicare e comunicarsi anacronistico. Anzi.
Ora, se non hai più voglia di seguire il gregge del “Less is more” e ti assale davvero il desiderio di fare non uno, ma tre passi avanti verso ciò che coinvolge profondamente il tuo pubblico di consumatori, puoi fare due cose: 1) contattarci, 2) imparare quantomeno a considerare il long-form come una possibilità da tenere in considerazione sempre, non dà escludere a priori e per partito preso.
Chi fa questo è esattamente ciò che pensa sia il long-form: OLD dalla testa ai piedi!
Siamo giunti al termine, perché ogni articolo così come ogni storia (anche se long-form²) deve avere una fine.