Commentare notizie e post sui social media è un’abitudine condivisa su cui la stessa natura dei network è basata.
Un’abitudine sana di dialogo e confronto che giova sia al compiacimento dei singoli (“Ho pubblicato qualcosa che è piaciuto, quindi per una sorta di transfer 2.0 sono stato apprezzato anche io”) che alle metriche dei brand (“Con questa soglia di interaction nella fan page, l’edge rank me lo mangio”). Una storia d’amore, quella tra social e utenti, che in 10 anni ci ha insegnato a capire meglio le persone, riconoscerne l’approccio alla comunicazione, bannare elegantemente gli insospettabili molesti.
Chi sono i troll e come prosperano tra i social
Come in ogni storia d’amore, tuttavia, supercattivi, bravi e matrigne malvagie si mettono in mezzo per rovinare l’idillio. Nella nostra storia i cattivi prendono la forma tutta nordeuropea di piccoli omini rumorosi e maleducati: i troll.
Coadiuvati da gregarie meno fastidiose ma comunque antitetiche alla conversazione (le emoticon e le interaction, paladine colorate della non-comunicazione),
questi instancabili flamer hanno reso campi di battaglia anche i temi più pacifici e sornioni (cronaca rosa, scoperte scientifiche, risultati del lotto e così via).
Un’attitudine alla rissa digitale che mette ogni giorno leoni da tastiera al centro di un circo freak colmo di spettatori annoiati.
Ora, senza entrare nel merito di chi dice cosa a chi o perché (dando per buono l’assunto per cui se nel vostro feed non avete troll, il troll siete voi), analizziamo dal punto di vista di chi lavora con i social media il fenomeno troll. Per facilità di esposizione ci limiteremo all’universo Facebook, e nello specifico alle fan page di un qualunque brand (dalla multinazionale al circolo degli scacchi sotto casa).
Le conversazioni appassionate portano commenti, risposte ai commenti, like ai commenti e così via. Metriche che si impennano si alternano a volumi di views e reach da fare impallidire anche le migliori delle pagine buongiorniste. Contatori di notifiche a tripla cifra rendono l’amministratore della pagina più orgoglioso di un padrone di un cucciolo di labrador al parco.
Social Media Crisis contro troll e bufale
Una cosa buona, no? Non proprio. Perché il dogma pubblicitario “nel bene o nel male purché se ne parli” è morto da quando tutti possono dire tutto a tutti senza filtri (vedi innumerevoli casi di Social Media Crisis) e il buon gestore di pagina sa bene che una shitstorm (si chiamano così, sorry) è oggi uno dei peggiori mali che possano accadere alla comunicazione di un brand. Tutto questo potere di infangare marchi, prodotti, testate giornalistiche e personaggi pubblici nelle mani di utenti inferociti per [inserire trend topic del momento] rappresenta un guscio d’uovo davvero sottile.
La compresenza del “business delle bufale” e degli inferocibili sarebbe, per molti analisti politici, un fattore determinante nella creazione/manipolazione dell’opinione pubblica e addirittura nell’esito di elezioni.
La Germania ha dichiarato di voler multare i siti “bufalari” che infiammano le masse, ma il caso di Ermes Maiolica racconta un’altra verità.
Maiolica, riconosciuto come uno dei più grandi bufalari del web italiano, ha mostrato in più interviste come la maggior parte dei suoi articoli con titolazzi sopra le righe in realtà contengano parole a caso o addirittura contenuto opposto rispetto al titolo. Questo “esperimento” racconta quindi una mania di condivisione e commento dei post che non prevede neanche un secondo di lettura. A fronte di una condivisione scriteriata e quindi di numeri di interaction da capogiro, vale la pena mettere a repentaglio la percezione di veridicità di ciò che leggiamo on line? Per le tasche degli host dei siti bufalari sicuramente sì (almeno fino a che non vengono chiusi). Gli utenti “oversharing” ne escono invece con le ossa rotte, smascherati pubblicamente per la loro frettolosa furia indignata.
Multe ai siti di bufale… ma come obbligare a informarsi?
Il sito di news norvegese NRK ha recentemente introdotto un quiz obbligatorio per accedere alla sezione commenti, una sorta di captcha evoluto facilmente superabile se si ha letto l’articolo fino in fondo (di seguito una versione tradotta male dal norvegese da Google Translate)
Lo scopo sarebbe quello di obbligare la gente a leggere la news prima di dire la propria, ma anche far prendere un attimo di respiro a chi si sta per accanire nella sezione commenti. Un esperimento ardito che mette in secondo piano il numero di commenti in favore di una maggiore qualità della conversazione.
Ad oggi non esistono ancora modi di applicare questa “soglia di conoscenza minima” ai social network, ma Facebook ha già detto di esser sul pezzo per garantire un maggiore controllo su bufale e troll.
Sarà il ritorno alla conversazione civile?
Dipenderà tutto da noi utenti. Off line non è raro animare discussioni anche su argomenti che conosciamo meno dei nostri interlocutori, ma si sa, le chiacchiere da osteria rimangono tali. Sul web ogni parola rimane ben registrata e visibile. E non sempre rileggerci anni dopo ci rende orgogliosi di noi.